Siamo moribondi e non vogliamo ammetterlo, combattiamo una guerra fra poveri, siamo inconcludenti e preferiamo galleggiare sullo sterco, piuttosto che imprimere un’impronta forte ed epocale sull’informazione. E non ci rendiamo conto di essere diventati bestie, con l’arroganza di voler imporre la propria opinione e la presunzione di avere la verità tra le mani.
Chiunque ha il diritto di provare a mettere su due righe, tutti noi abbiamo il sacrosanto diritto di coltivare quelle stesse passioni che tanto desideriamo condividere con il vasto pubblico umano e virtuale, nonostante il talento sia enormemente scarso (a seconda dei casi). Il Napoli scende timoroso in campo, rischia di prendere più di una sberla, l’imbarcata sembra a un passo dopo la traversa di De Bruyne. Insomma, un passivo di quattro reti poteva essere accettabile. Gli azzurri vengono tramortiti e parte dell’opinione pubblica esulta, la stessa che sentenzia l’Inter quale fortunata, la Juventus ladra, la Roma sfortunata per non aver giocato oltre un’ora nell’impegno con la banda del comandante Sarri. Volevano il solito Napoli, lo volevamo tutti, ma l’avversario era il Manchester City ed ogni discorso intrinseco di perché vede i risvolti minuto dopo minuto. Certo, in campo non è il solito Napoli, ma intanto regge. Il tecnico azzarda determinate scelte, forse Zielinski e Hamsik ieri sera erano troppo incompatibili, c’è chi addirittura vorrebbe Diawara fuori. Sì, proprio lui, il giovincello che con freddezza trasforma il rigore precendenteme sbagliato da Mertens e riapre il match. Perché in campo non c’erano undici teste di c***o, ma gli attributi per riprendere e riaprire una partita che sembrava destinata a chiudersi già nel primo tempo, quelli erano ben presenti. Così come la crescita psicologica: nonostante il rigore sbagliato, al netto di un’emotività pronta a manifestarsi qualora fosse partito l’input, il Napoli ha reagito addirittura prendendo in mano le redini della partita. E il paradosso è proprio questo: dal “menomale” siamo passati al “che peccato”, mentre Guardiola poneva rimedio con un mediano e un difensore al posto di due attaccanti (Mazzone docet).
Ieri sera il Napoli ha dimostrato di essere una signora squadra contro dei colossi, ma per l’opinone pubblica, i social e gli stessi media contano i primi 30′ di gioco, il resto è obsoleto. Cosa vi aspettavate? Ritenete davvero così semplice andare all’Ethiad Stadium e tener testa o addirittura avere la meglio su De Bruyne, Fernandinho, David Silva, Aguero (che non ha giocato)? Eppure dal fronte opposto non giungevano a destinazione che parole felici, di stima, anche quando l’ex allenatore del Barcellona campione di tutto veniva incalzato non per un attacco diretto, bensì per trovare l’ennesimo pelo nell’uovo. Ebbene, se Insigne e gli altri hanno seriamente rischiato di essere sepolti vivi, con sincerità ed eleganza di un calcio che non ci appartiene più, Guardiola ammetteva che “era impossibile dominare il Napoli per 90′. Pensi che abbiamo giocato contro dei ragazzini?”.
Il fatto che chiunque si senta in dovere di esprimere la propria opinione senza opportunamente confrontarsi, attraversando la sottile linea che divide l’ironia e il sano sfottò dal “tifare contro”, oltre a causare una profonda nausea, certifica la morte dell’onestà intellettuale partita da noi addetti ai lavori, colpevoli per vizio e necessità di vendere un prodotto tanto amato dall’italiano medio. Tutti noi ci siamo dentro, inutile nasconderci: in questo Paese è impossibile deporre per un momento la sciarpa in favore dell’obiettività, non esiste più la cultura dell’onestà intellettuale. E non potrà mai più tornare finché saranno vigenti la quotidianità del “tifare contro” e la prassi nel vedere nell’altro l’avversario da odiare e non con il quale genuinamente confrontarsi… E parlare di calcio. Perché è diventato fin troppo facile guardare nell’orticello altrui e alimentare il fervore del pubblico con i nostri trucchetti, estrapolando frasi da un discorso ben più ampio ed esporlo alla mercé al fine di ottenere una discussione bassa in linguaggio e contenuti.
Così facendo, ammazziamo il giornalismo e noi stessi che commettiamo l’errore di considerare il calcio quale strumento di rivalsa personale in una vita immensamente triste. Triste, appunto, come la guerra mediatica tra i vari giornali locali. Purtroppo siamo arrivati a un’opaca epoca dove tutti i limiti vengono superati da frustrazione, ignoranza e violenza verbale tipica – non esclusivamente – dei social. Di conseguenza, ogni cosa viene portata all’esasperazione, che si tratti di un dibattito politico o di una chiacchiera da bar dello sport. E parte di media (e chi ne fa parte) contribuisce ad alimentare questo tipo di linguaggio perché vendono un prodotto che piace alla stragrande maggioranza degli italiani medi, come sottolineato poc’anzi. Di questo passo sarà anche peggio con le future generazioni, ma la colpa è anche nostra, di un settore vistosamente calato in qualità. Un calciatore sforna un paio di ottime prestazioni e lo consideriamo fenomeno, il nuovo fuoriclasse; diventa un brocco, un elemento da scartare, se alle due-tre successive partite non ottiene la sufficienza piena. Abbiamo perso il significato principale del procedimento scrittura-lettura in favore dello scoop becero, dello sfrenato sfottò eccessivo e di un vittimismo incalzante. Abbiamo trasformarto l’arte dello scrivere in un’attività prettamente commerciale. E l’opinione pubblica non riesce a scollegare il cervello dal tifo, vuoi che sia un tifoso semplice o una prima firma di un autorevole giornale. Torniamo a parlare di calcio, mettiamo da parte il “tifare contro” e soprattutto il solo trovare una rivalità inesistente tra due contendenti. Ammettiamo i nostri passi falsi, le sconfitte maturate, evitando di puntare il dito contro i gufi. Diamoci una calmata o ammazziamo il giornalismo (e noi stessi).
Andrea Cardinale
Fonte foto Official Twitter SSC Napoli